Perché la bontà conviene

Si deve a Henry David Thoreau una riflessione profonda quanto esemplare: «la bontà è l’unico investimento che non fallisce mai».

Non finiamo mai in perdita, con la bontà. Siamo sempre ripagati.

Almeno in pace e serenità e questo è moltissimo.

Ma il discorso sull’altruismo, sulla disponibilità, sulla generosità, occorre affrontarlo in maniera pratica. Possiamo essere buoni perché ciò è dettato dai nostri valori, perché siamo predisposti al bene, perché fa parte della nostra morale. Ma possiamo essere buoni anche se sfruttiamo davvero la nostra intelligenza.

 

La bontà è come una miccia. Fa scoppiare cose positive. Dentro di noi e fuori.

Ci fa stare meglio, aiuta le nostre relazioni, dimostra la nostra forza.

 

Concentriamoci sull’aspetto della forza.

Non dobbiamo confondere il buono con l’arrendevole. Niente affatto, il buono non è un pavido. Ha sensibilità, è capace di affetto, non prova malignità inutili.

Non ha paura di essere preso per un debole, non lo è e sta bene con se stesso e con gli altri.

Talvolta, peraltro, è proprio la dose di umanità della bontà a essere un’arma eccezionale per comprendere un contesto, una persona, una situazione. Invece di essere vittima di diffidenza, pregiudizio, istinto di difesa, il buono è aperto e pronto a valutare. Tende facilmente una mano perché sa che quello è il gesto giusto, lo stesso che vorrebbe ricevere in analoghe condizioni. Presta ascolto perché non coltiva a priori sospetti, acredine o timori e sa che potrebbe sempre ricevere o imparare qualcosa.

Questa disposizione d’animo crea connessione.

Connessione nell’ambiente, connessione in famiglia o sul posto di lavoro.

La bontà non può fallire, ha ragione Thoreau, perché ci premia innanzi tutto in benessere.

Non ci fa accumulare rimorsi e ci evita il disastro delle avventate cattiverie. Le chiamiamo gratuite, no, le cattiverie fini a se stesse?

Proprio così, non sono affatto redditizie.

Al contrario la bontà è produttiva perché ci mette in luce: invece di ferire è feconda, agevola le nostre opportunità, conserva e alimenta la nostra energia, facilita i contatti.

Il buono ha polso. Prende le redini di una situazione e cerca la soluzione. Non medita vendetta, bada alla giustizia. Non fa terra bruciata, coltiva il campo della vita.

Il buono tiene facilmente la trama delle alleanze e delle collaborazioni perché non cospira, si muove con spirito costruttivo.

Alla bontà non viene in mente di sferrare colpi bassi perché sa che la legge del boomerang è sempre attiva. Non prova gusto a nuocere perché comprende quanto possano essere potenti l’unione e la lealtà.

 

In sintesi cosa c’è di prezioso nella bontà?

 

Il coraggio. Il coraggio di non essere meschini, rabbiosi, egoisti, impulsivi.

Un coraggio che migliora il nostro stato d’animo e la qualità della nostra esistenza.

E proprio questo riflesso a sua volta potenzia tutte le nostre possibilità. Infatti il buono osserva con sguardo limpido e ha una concentrazione più brillante perché non è distratto e logorato dalla tensione del malanimo.

Appurato che è vantaggiosa, la bontà si può apprendere. Nella realtà il buono è infatti proteso al pensiero positivo, all’azione efficace, all’atteggiamento disteso. Ha un metro di giudizio più obiettivo, non cova rancori sfibranti. Catalizza influssi favorevoli. Questo dovrebbe invogliarci davvero a tirar fuori la bontà spesso sepolta sotto la corazza. Possiamo coltivarla iniziando da piccoli gesti quotidiani: un aiuto in più, una parola gentile in più, un atto di dolcezza in più, un moto di indulgenza in più.

Stefano Pigolotti

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