Lamentarsi compulsivamente è un vizio diffuso. Una cattiva abitudine che prendiamo e coltiviamo innanzi tutto per difesa.
Ci lamentiamo infatti del destino perché questo ci sottrae a colpe, ci colloca nel ruolo di vittime, giustifica la nostra inerzia.
Ci lamentiamo delle ingiustizie che affermiamo di subire, degli altri che deludono le nostre aspettative, degli eventi che abbiamo atteso invano.
Il lamento in effetti è uno sfogo umano, tanto umano quando è legato a un momento.
Un momento di tristezza, di fragilità, di sconforto.
Ma diventa un alibi quando supera quella soglia e diventa esercizio quotidiano di scontento.
Ecco che si palesa il vizio.
Ecco che dimostriamo di non assumerci la responsabilità della nostra vita.
Il lamentoso ad oltranza spreca tantissime energie in un auto-inganno che non genera che condizioni sfavorevoli. Non muove un dito per porre rimedio a condizioni che causano la sua insoddisfazione, frustra le sue potenzialità, tarpa le ali ai suoi sogni e ai suoi obiettivi. Si tratta di una tendenza logorante, fatalmente inutile o dannosa, svilente.
Accettare le difficoltà, i fallimenti, le fatiche, significa invece, al contrario, riconoscersi la chance di potervi porre rimedio, di poterli affrontare, di avere altre frecce al proprio arco.
Invece di accumulare disagio, possiamo attivare reazioni. Invece di darla vinta alle scuse, possiamo essere protagonisti di scelte, di rivalse, di nuove occasioni.
Non lamentarsi vuol dire non sentirsi prigionieri del caso.
Non piangersi addosso, non rassegnarsi all’idea di essere del tutto preda di poteri esterni, non intrappolarsi nel proprio dolore, è la scelta consapevole della stima di sé.
Ma come si attiva, l’arte di non lamentarsi?
Si attiva appunto con un lavoro su di sé. Un lavoro che ci consente di rimetterci al centro delle possibilità, di fare un costante cammino di crescita, di mantenere chiara la sensazione di poter incidere sulle cose, sui giorni, sulle direzioni, della nostra esistenza. Un lavoro che diventa anche rispetto della vita stessa e delle sue opportunità, degli altri, di tutto ciò che possiamo fare.
Il lamento scatena negatività. È fastidioso, per sé e per gli altri.
Rimboccarsi le mani, viceversa, è un atteggiamento pratico, fiducioso, costruttivo, che favorisce sviluppi positivi.
Invece di pensare al problema che ci è toccato, iniziamo a pensare a come possiamo risolverlo. Mentalmente abbiamo già fatto un salto, abbiamo ripreso in mano le redini, ci siamo messi in posizione di azione efficace.
Il peso del lamento, perfino fisico oltre che emotivo, ha bisogno di essere alleggerito. Dobbiamo comprendere che è una zavorra della quale liberarsi.
Se ci riflettete un po’ è facile intraprendere l’apprendimento dell’arte di non lamentarsi.
Possiamo iniziare con le piccolissime evenienze che ci disturbano, quelle che ci fanno sbuffare. Prendiamo le distanze, ridicolizziamole, e svaniranno come neve al sole.
Questo vuol dire sostituire un’abitudine negativa con un’abitudine positiva.
Altro validissimo allenamento è la gratitudine: soffermarci su ciò che abbiamo di buono e su ciò di cui proprio non possiamo lagnarci ci aiuta a focalizzarci su quello che gioca a nostro favore e usarlo per scrollarsi di dosso l’impulso a recriminare su tutto.
Se a furia di lamentarci perdiamo la capacità di mettere in moto le nostre migliori risorse, facciamo presto a renderci conto che quanto più invece rialziamo la testa e prendiamo in pugno le situazioni tanto più ci affranchiamo dall’insidia del lamento.
Un consiglio pronto per l’uso?
Aprite una parentesi, sfogate quello che vi stimola al lamento e poi chiudete la parentesi, esercitatevi cioè a dargli sempre meno spazio, a considerarlo un umano cedimento e nulla più.
Questo piccolo trucco lo sgonfia, gli toglie valore, lo disinnesca.
Stefano Pigolotti